Intervistare un uomo come Francesco Repice è un’esperienza quasi mistica per un appassionato di calcio. Storica voce è oramai anche volto riconoscibile della Rai e del suo amato servizio pubblico, è competenza calcistica allo stato puro, è un uomo diventato icona che risponde alle domande con l'umiltà di un ragazzo alle prime armi. Carattere duro ma che piano piano concede confidenza, anche se a primo impatto può sembrare un “orso” difficile da far parlare. Il punto è che lui ci ricorda che cosa voglia dire fare il giornalista: chiedere, non affermare. Lo ha fatto lui stesso con davanti Simone Inzaghi nella notte della terribile sconfitta nerazzurra avvenuta in Champions contro il Paris Saint Germain. Ed è per questo che parlando con Repice, prima ancora che di calcio, capiamo qualcosa in più rispetto a questo lavoro, alla vita, alla necessità di spogliarci dell'arroganza e della presunzione che spesso accompagnano la nostra smania di protagonismo. Ho definito Repice un brand, perché effettivamente lo è, perché riesce ad essere amato dai tifosi di qualunque squadra nonostante tutti sappiano che la sua fede calcistica sia la Roma. Ma è troppo bravo, preparato, competente, trascinatore, emozionante per non piacere ai tifosi di ogni squadra italiana. Ecco perché questa non è solo un'intervista e perché Francesco Repice non è solo il radiocronista più famoso d'Italia. È un viaggio nella storia del calcio che nasce da una frustrazione, la sua, che però è riuscito a convertire in una straordinaria risorsa, arrivando dove è oggi senza mai dimenticare le sue umili origini.

Come nasce il brand Repice?
Il mio brand? Il marchio mi fa pensare a una roba tipo il Bovaro del Texas che marchia il bestiame nel periodo della transumanza per non perderlo. Scherzi a parte, sinceramente, non lo so. Credo semplicemente che sia un modo di raccontare il pallone, che può piacere o no. Tutto qua. Nasce da una frustrazione, fondamentalmente.
Da una frustrazione?
Io avrei voluto giocare a pallone, ma non sono andato oltre gli infimi livelli. Non perché mi sia fatto male, ma proprio perché non era per me. Quindi la grande frustrazione di non aver potuto giocare si è trasformata nella determinazione di voler rimanere in un mondo che comunque mi è sempre piaciuto e che ho sempre sentito come mio. O, perlomeno, un mondo nel quale ho sempre pensato: “Qui io ci posso stare”.
Sei uno dei pochi giornalisti che, pur essendo dichiaratamente romanista, non vieni mai criticato o “insultato”, come invece avviene con altri, per la squadra che tifi. Metti una passione incredibile in qualunque partita racconti, sembri quasi un tifoso di ogni squadra che stai raccontando.
Ci sono due ragioni: una personale e una generale ma molto, molto seria. La prima è che il pallone, lo stadio, quel clima, quell’ambiente mi appassionano. La seconda riguarda una questione molto più importante, che travalica anche i confini angusti di un campo da calcio e riguarda due parole: “servizio pubblico”. Io credo che tutti debbano essere gratificati nel lavoro di una persona che pagano anche grazie al loro sforzo. Quindi grazie al canone che pagano gli italiani, e tutti devono avere il diritto di vivere delle emozioni. Anche chi subisce un gol e sente esaltare le gesta della squadra avversaria, perché a quella gioia corrisponde un dolore. Ma è una cosa tipicamente da stadio. E credo che tutti abbiano diritto a un racconto, a una narrazione che li coinvolga, che li appassioni, che li emozioni. Come mi coinvolgo io. E questo fa riferimento a una questione molto più larga, più importante, più seria: il servizio pubblico. È questo il motivo, è questa la ragione.
Quindi non condividi le critiche che sono state rivolte a Bergomi e Caressa per quello che è stato considerato un eccesso di pathos durante la telecronaca di Inter-Barcellona?
Mi fanno ridere quelle critiche. Inter-Barcellona, una semifinale di Coppa dei Campioni di quel tipo, un 4-3 che riporta addirittura allo Stadio Azteca del 1970 (io già avevo sette anni e quella partita l’ho vista in diretta con mio papà). Davvero qualcuno pensa che non si debba essere trasportati in quel modo da quello che accade? Mi viene da ridere. Sono critiche che non hanno senso. E poi parliamo di due persone molto serie, due professionisti al di sopra e al di là di ogni ragionevole dubbio, di ogni sospetto.
Ti piace il calcio, ma ti piace anche l’ambiente che ruota attorno al calcio? Abbiamo visto, forse per la prima volta seriamente dopo anni, un’inchiesta pesante sul calcio che coinvolge Inter e Milan: l’inchiesta “Doppia curva”. Cosa ha suscitato in te?
Fa male, soprattutto per chi viene da una curva. Io sono orgogliosamente appartenuto alla Curva Sud dello Stadio Olimpico di Roma. Un microcosmo che, negli anni Settanta, è stato un po’ come il fiume Giordano. Se due ragazzi della mia età si fossero incontrati per strada, con opinioni politiche diverse (in un clima che tu non hai vissuto, ma che ti garantisco c’è stato) si sarebbero scontrati. Nella migliore delle ipotesi. Dentro quella curva era diverso: era un po’ come il fiume Giordano. Cancellava tutti i peccati. Le differenze non contavano più. Il linguaggio era orizzontale, non c’erano discriminazioni di credo politico, di ceto sociale, di appartenenza, di colore della pelle. Di nulla. Era un posto, con tutti i suoi limiti, molto educativo da questo punto di vista. Purtroppo, quello che io ho sempre visto, e non parlo della Curva Sud della Roma, ma in generale, è che il crimine organizzato si avvicina lì dove capisce che può esserci un guadagno. Quindi la storia delle trasferte, la gestione dei biglietti, le maglie, il merchandising… tutto quello che ruota attorno allo stadio, credo purtroppo abbia attirato determinati interessi. Sta a chi vive la curva in maniera originale dalla radice liberarsi di queste zavorre. Purificare quel posto, che con tutti i suoi limiti, è stato un microcosmo di grandi sentimenti, di grandi emozioni. E soprattutto un posto dove siamo stati veramente uguali, veramente fratelli.
Hai parlato di purificazione. Sarà mai possibile debellarla, questa infiltrazione dell’‘ndrangheta?
Sì. Sono calabrese. E so bene di chi parlo. Conosco molto bene l’argomento. Però, anche nei momenti di massimo sconforto, che riguardano la mia terra, che adoro, io cerco di ricordare sempre le parole di Giovanni Falcone: “Come tutti i fenomeni umani, anche il fenomeno mafioso ha avuto un inizio e avrà una fine”. Bisogna impegnarsi. Ma io sono convinto che questo accadrà.

Saviano l’ha definita la curva più infiltrata d’Italia.
Io non mi sento di dire questo, perché non conosco. Ma della curva dell’Inter mi rimangono gli sguardi dei ragazzi dopo il 4-3 di Davide Frattesi, le lacrime dei ragazzi a Monaco di Baviera, alla fine di Paris Saint-Germain–Inter. Io voglio pensare a quello. Voglio pensare, come Giovanni Falcone, che è un fenomeno umano: ha avuto un inizio, avrà una fine. Come tutti i fenomeni umani.
Veniamo a Monaco. Che cosa è successo prima? È difficile non trovare un collegamento tra l’addio di Inzaghi e quella partita che sembrava non avere una spiegazione lì per lì.
Io rispondo con una domanda, cosa che non si fa. Ma veramente pensate che un allenatore, anche se in bilico tra un posto e l’altro del mondo, prima di una finale di Coppa dei Campioni possa essere distratto da certi argomenti? Ma lo pensate davvero? Ecco, è qui che ogni tanto mi innervosisco: quando il dentista, l’avvocato, il gommista, l’idraulico, l’operaio, il notaio, il chirurgo intervengono su questioni tecniche. Come se Simone Inzaghi, o qualunque altro allenatore, entrasse in un’aula di tribunale e pretendesse di condurre l’arringa al posto dell’avvocato. O entrasse in una sala operatoria e pretendesse di operare al cuore al posto del cardiochirurgo. Perché tutti devono avere un’opinione sul calcio? Perché tutti si sentono in diritto di dire la loro, pur non conoscendo questo mondo? Ma veramente pensate che un allenatore, prima di una finale di Coppa dei Campioni, a capo di un gruppo di ragazzi con cui ha vissuto quattro anni, possa avere in testa altre vicende?
Ti riferisci a?
Parlo di tutti quelli che si mettono sui social e devono dire la loro dal punto di vista tecnico. Non sono d’accordo. Io, per esempio, che vivo di calcio e ho messo gli scarpini, seppur a livello infimo, quella sera avrei domandato a Simone Inzaghi, subito dopo la partita: “Ma non era il caso di far giocare Zielinski, Frattesi e Carlos Augusto al posto di quei tre che non ne avevano più nelle gambe?”. Ma lì non era il momento. La domanda può arrivare dopo. E comunque io mi sarei fatto un’idea dopo la risposta dell’allenatore, non con le mie teorie che non poggiano su nulla. Io faccio una domanda a uno che ne sa molto più di me e mi faccio un’idea sulle sue risposte. Il pomeriggio prima tu eri a Monaco. La mia domanda l’hai ascoltata?
Sì, gli hai chiesto se sentisse di avere l’Inter migliore.
Sì. Non era una domanda fatta a caso. E che cosa ha risposto Simone Inzaghi?
“Io l’Inter migliore ce l’ho avuta tre volte quest’anno”.
Tre volte. E lì avrei dovuto capire. E non ho capito. Perché, secondo me, la squadra non ne aveva più nelle gambe. Ma già da molte settimane, non solo dalla partita a Monaco di Baviera. La domanda giusta sarebbe stata dopo: “Perché non hai fatto giocare dall’inizio Frattesi, Augusto e Zielinski?”. E io già ti posso dare la risposta che mi avrebbe dato lui: “Perché io con questo gruppo ho iniziato, e questo gruppo me lo porto fino alla morte”.

Due cose ti devo chiedere. La prima: hai toccato un tema che riguarda il rapporto, ultimamente un po’ teso, tra Inzaghi e i giornalisti. Abbiamo visto che, soprattutto con Capello e Di Canio, si è tolto dei sassolini dalle scarpe. La seconda: questo “arrivare fino alla fine con quegli uomini”, che da un lato è lodevole, dall’altro non sia sintomo dell’assenza di una dose di cinismo, necessaria per allenare a certi livelli?
Se guardo il percorso di questi quattro anni, vedo che è stato vinto uno scudetto, due Coppe Italia, tre Supercoppe. Ho visto due finali di Coppa dei Campioni. Quindi sei trofei in quattro anni. Valorizzazione dei calciatori, vogliamo parlarne? Io devo giudicare il percorso. Non posso giudicare tutto in una sola partita. Perché anche se avesse avuto quel cinismo e avesse messo quei tre al posto degli altri tre, poi la partita la perdi lo stesso. Perché il peso è troppo forte in quel momento. Se l’Inter riesce a fare il primo tempo che fece contro l’Atalanta a inizio stagione ti rendi conto che l’Inter la vince, quella finale. Ma le cose cambiano nel corso dei mesi. Cambiano tantissimo. E quindi, anche se io cambio due, tre, quattro giocatori, secondo me non cambia nulla. Alla luce di quello che si è visto. Il cinismo… lo puoi avere se te la giochi pari. Ti faccio un esempio: Claudio Ranieri, in un derby passato alla storia, Roma–Lazio, tiene in panchina Totti e De Rossi nel secondo tempo, e la vince di rimonta 2-1. Era l’anno del triplete dell’Inter, peraltro. E la Roma va in testa alla classifica. Ma lì te la stai giocando. Lì c’è partita. Qui no. E quindi, come ci dicevano le maestre alle prime lezioni di aritmetica: cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia.
E sul rapporto con la stampa?
A parte che più che rapporto con la stampa, è con dei suoi colleghi. Perché comunque, fino a prova contraria, Fabio Capello e Paolo Di Canio sono dei colleghi di Simone Inzaghi. Ed è ovvio che lui risponda in maniera più piccata ai colleghi. Perché è ovvio che con loro faccia un certo tipo di dialogo, loro sanno di che si parla. Sanno cosa vuol dire stare in panchina in certe situazioni. Magari nel caso di Di Canio non una finale di Champions, ma comunque partite importanti in Premier League. E quelle vigilie lì, quelle cose lì, quelle sensazioni lì… le conoscono. Altra cosa è il rapporto con i giornalisti in generale e mi riferisco a quando la stampa generalista fa delle considerazioni tecniche che secondo me sono un po’ superficiali. Un allenatore vive sette giorni su sette per quattro anni con quei giocatori, con quegli uomini, prima ancora che con degli atleti. Ma saprà lui, le scelte che deve fare? Come posso io mettermi lì e dire “ha sbagliato a fare questo, a fare quell’altro”? È una cosa che ho sempre pensato. Tant’è che chiedo. Io chiedo, non affermo. Chiedo: “Perché non hai fatto giocare questo o quello?”. E poi mi viene data una risposta sulla quale mi faccio un’idea. Ma io non sto sette giorni su sette con loro. Io non posso sapere.
Trovi che si sia un po’ confuso il ruolo tra giornalista e opinionista?
Fin troppo. Credo che questa confusione sia diventata eccessiva. Perché molti giornalisti si sentono autorizzati a parlare sullo stesso piano degli allenatori. E purtroppo non è così. Vedo gente che cerca di spiegare a calciatori affermati la differenza tra una posizione e l’altra… Io inorridisco. Capisci che non può essere. Non è una cosa possibile. Ecco, secondo me troppi colleghi cercano di fare gli allenatori. Cercano delle spiegazioni tecniche o tattiche che noi, secondo me, non possiamo dare. Io almeno non posso. Non posso capire certe dinamiche.
Da dove riparte l’Inter?
C’è una cosa che io credo venga sottovalutata: l’anima dell’Inter. Se prendi una squadra forte, strutturata com’è questa Inter, con giocatori che si conoscono a memoria, che si vogliono bene, che hanno una grande consapevolezza, puoi anche sbagliare qualcosa all’inizio, puoi anche non avere tutto pronto. Ma tra loro si capiscono. Poi è chiaro che ci vuole un allenatore che sappia gestire il gruppo, entrare nel sistema, capire come funziona quel mondo lì.
Quindi credo che l’Inter debba ripartire da quello che è già, da quello che ha costruito in questi anni. E lo ha fatto bene. Perché questa squadra, con tutti i suoi limiti e le sue fatiche, è arrivata fino in fondo due volte in Champions in quattro anni. Questo non si può dimenticare. Quindi: ripartire dalle certezze. Dai giocatori, dalla loro identità. Dall’idea di calcio che hanno interiorizzato. E l’Inter ha gli strumenti per non smarrirsi. Anche in un passaggio delicato come questo.

C’è un altro capitolo “interessante” nella dinamica calcistica, il rapporto che si era creato tra Spalletti e Acerbi. C’è stato quel botta e risposta durissimo.
Lì credo che abbia ragione Buffon quando dice che Acerbi non ha detto no a Spalletti, ha detto no alla maglia nazionale, che in teoria dovrebbe essere sopra ogni interesse singolo.
Però Acerbi si è sentito offeso.
Sì, si sarà pure sentito offeso, magari anche giustamente, ma non doveva dar peso all’offesa e doveva dire: “C’è qualcosa di più importante che è la maglia azzurra”.
Intanto però Spalletti se ne è andato...
Credo che tutto sia precipitato in poche ore dopo la clamorosa sconfitta contro la Norvegia. Da lì i tempi si sono improvvisamente accorciati perché ognuno, sebbene accettasse le decisioni dell’altro (e mi riferisco a Gravina e Spalletti), ha voluto mettere bene in chiaro le proprie ragioni. Adesso però, la cosa importante è arrivare al mondiale perché questo è l’obiettivo primario, tutto il resto bisognerà necessariamente metterselo alle spalle.
Ma pensi davvero che venga Ranieri? E abbiamo chance per il Mondiale?
Non lo so chi verrà. credo sinceramente che le chances per andare al mondiale ancora ci siano, attraverso qualsiasi via di uscita. Sia essa la qualificazione diretta nel girone, anche se appare improbabile al momento, attraverso i play-off, o in qualunque altro modo basta che a quei mondiali ci andiamo. Con chi? Con chi volete.
Il calcio italiano vede una prevalenza di fondi americani. Quanto secondo te, sentendo anche il recente discorso fatto da Cardinale qualche giorno fa, prevale l’aspetto finanziario nella visione del calcio?
100%. Io non credo che ci siano né fondi né gruppi privati americani che siano tifosi dell’Inter, della Roma, del Bologna. Quindi ritengo siano questioni esclusivamente finanziarie.
Non tornerà mai più l’era Moratti-Berlusconi?
Spero di sì, che possa tornare. Io il pallone lo conosco in maniera diversa: con Berlusconi, Agnelli, Moratti, Sensi.
Se oggi Repice dovesse descrivere il calcio moderno in una parola, che aggettivo sceglierebbe?
Speculativo.

La gestione delle squadre quest’anno è stata piuttosto singolari. Vedi il caso Milan, vedi il caso di Antonio Conte che nessuno si aspettava rimanesse sulla panchina del Napoli, vedi Ibrahimovic che ha fatto un casino incredibile al Milan. Ecco, da dove riparte questa Serie A?
Da Antonio Conte e Massimiliano Allegri? Riparte da lì con una curiosità infinita per Gian Piero Gasperini alla Roma. Per la Juventus e per l’Inter non so cosa dirti perché non sanno nemmeno loro in che situazione si trovano. Io invece credo che sì, sia un vantaggio per Milan e Napoli aver già deciso tutto, essere già un po’ avanti anche nelle decisioni di mercato. Anche se l’Inter si sta muovendo molto con i calciatori. Però, sai, avere una guida tecnica sicura significa molto. Credo che Milan e Napoli siano avanti.
Ha fatto bene Ranieri a non rimanere sulla panchina della Roma?
Beh, quella è una sua scelta personale. Si sarà anche stancato. Siamo tutti innamorati di Ranieri perché rappresenta ancora quello spicchio che ha un’idea di calcio, di come lo conosciamo noi, di pallone appunto, come lo chiamo io. Però sono cose talmente personali sulle quali non puoi davvero influire. Lui è un uomo che ha vissuto praticamente tutta la vita o dentro un campo di calcio o comunque da giocatore prima e da allenatore poi. Beh, a 73 anni uno può anche dire stop. Anche se credo stia ricoprendo un ruolo altrettanto fondamentale all’interno della Roma.
Come ti prepari per una telecronaca?
Dormo.
Che fai, come Sinner?
Sì, io dormo, perché poi tutto quello che devo dire me lo suggerisce lo stadio. Prima non c’è niente da studiare, anche perché ho la fortuna di fare partite importanti e se non conosco i calciatori e le notizie che riguardano squadre importanti e partite simili, vuol dire che devo lasciar stare. Non c’è niente da preparare, c’è da riposare e farsi poi completamente influenzare da quello che succede prima del campo, dello stadio.
Hai mai pensato di mollare?
Beh, insomma, non sono di primissimo pelo. Ho 62 anni suonati. La voglia di tornarmene al mio paesello a pescare, essendo di Tropea, è tanta.
E cos’è che ti trattiene ancora sugli spalti?
Innanzitutto, il lavoro, perché è un lavoro con cui ho mandato avanti una famiglia. Poi la passione è intatta, dal primo giorno.
E quella R di “ha segnato l’Inter” è allenata? Perché ormai anche quello è un brand.
No, no, non alleno nulla. C’è poco da allenare. Cercavo di trovare una cosa distintiva per le tre squadre Inter, Milan e Juventus. Ho pensato che “ha segnato” è molto secco, chiaro, si capisce radiofonicamente, è un titolo secco. È una notizia. Per la nazionale ho scelto “siamo avanti noi”. Per la Roma, che è la squadra del mio cuore, dico sempre: “La Roma è in vantaggio”. Una volta ho ascoltato una telefonata in una radio, un altro servizio pubblico, Radio 2, così chiedevano la frase più bella del mondo, “La Roma è in vantaggio”. E questa cosa mi colpì moltissimo e io dico sempre che la Roma è in vantaggio.
So che è un po’ prematuro, ma hai una favorita per il campionato?
Milano e Napoli, lo dico subito, anche prima delle rose fatte.
Qual è l’X-factor di Conte?
La vittoria come ossessione, non concepisce altro. Mostruoso, semplicemente mostruoso.
Chi è il tuo idolo in questo lavoro?
Sandro Ciotti e Vitor Hugo Morales, loro due sono quelli che più mi hanno influenzato.